Reportage

Cronache norvegesi: regn i hovedstaden

Non è in questo momento né in questo luogo che inizia un viaggio. Il volo di andata, mattina presto, classico di Ryanair. Partenza da Bergamo, direzione Oslo. Il sole si sta alzando da cornice ad un’alba tipicamente padana, tipicamente ottobrina. L’autostrada si srotola davanti ai miei occhi, riconosco la mia mano, tesa sul volante. Poche auto, tralicci, ponti, alta velocità. Il mio viaggio inizia da due comignoli, fuori dalla finestra di camera mia, le quattro del mattino sono un orario insolito per per ragionare di luce e camini.
De Andrè, Ray Charles, i Queen, atterriamo. L’accoglienza che Oslo mi riserva è un transito. Sei pronto? Si, lo sono. La Storia si fa da parte, è una città di recente costruzione, edifici moderni e hipster. Piove, quasi una costante per la città, quasi una necessità. Oslo rappresenta un rito preparatorio, è in un certo senso, la città più contemporanea e storicamente vergine con cui sia entrato in contatto, una foresta amazzonica dei nostri tempi. Inondato dalla maestosità di quelli edifici, l’opera house, a picco su un mare intonso, pieno, scuro. L’esterno è un compromesso, vetro e marmo bianco che nella pioggia cambia colore, passando dal rosso al bianco secondo l’ombra e le venature della pietra. L’architetto che ha progettato la sede del Den Norske Opera & Ballett fa parte dello studio Snøhetta, nome della montagna più alta del Dovrefjell, una forma complessa, un paesaggio e insieme un oggetto, una terra di confine. “Enige og tro inntil Dovre faller”, Uniti finché le leali montagne di Dovre cadono, così giurava l’assemblea costituente nel 1814, non appena ottenuta l’indipendenza dalla Danimarca. L’ingresso della struttura non fa che aumentare questa sensazione rituale, di iniziazione. È decisamente sproporzionato rispetto allo spazio occupato dall’atrio maestoso, come volesse schiacciarti il naso a terra per poi farti alzare la testa e apprendere appieno il concetto di sublime. Vetro, legno, luce, buio, si sviluppa in tutte le direzioni, è un ecosistema, è la Norvegia.

immagini di terre sconfinate,

fughe di sabbia, bronzei cieli

dureranno fino alla fine dei tempi, il vento

solleva il granello di sabbia e lo posa su un sasso,

la pioggia lo lava via.

(Rolf Jacobsen)


Buio.
Esco sul terrazzo dell’Operahouse, è buio. Il passaggio da giorno a sera accade, si subisce, nell’ottobre scandinavo. Il sole, non raggiungendo mai lo zenit, si divide la piazza tra qualche ora di sorgere e qualche ora di tramontare, un passaggio liquido, le ombre rimangono le stesse. La cenere della sigaretta diventa incandescente e, a fianco ad essa, una luce nell’orizzonte del mare norvegese. Un Faro? “Dyna Fyr” una piccola costruzione, gialla, ma è illuminata quindi direi bianca, piuttosto. Un ristorante. I Radiohead.


The white room

By a window

Where the sun comes

Through


Ogni sensazione è riportata a qualcosa di preesistente, la città si svuota, il buio, che viene dal mare, si riprende ogni angolo.Mi dirigo all’ostello vicino al Munch Museum unico vanto di una società che pare non avere bisogno dell’opera dell’uomo, se non per rendere omaggio a chi la ospita. Attraverso il Gamle Oslo, direzione Sofienberg. La pioggia continua incessantemente a cadere, è parte dell’ambiente, della città, non un evento.Sono in via Åkebergveie, nel quartiere islamico. Caffè pieni, kebab, Damasco barbershop, le strade vuote. Il termometro si ferma a due gradi, proseguo. Natura.Ogni aspetto della vita notturna di Oslo è un anticipazione, il silenzio, le strade vuote nonostante siano appena le sei di un martedì pomeriggio. Un avvertimento, un battesimo. 
Spengo la luce, mi adeguo dolcemente alle regole di chi comanda qui, la notte è tempo di quiete.