Dal popolarismo al populismo, il PPE cambia rotta e rischia la spaccatura
Da qualche tempo il Partito Popolare Europeo è attraversato da tensioni. Raccoglie al proprio interno i principali partiti nazionale di centrodestra del continente e deve fare i conti con un mosaico frastagliato di posizioni e con profonde diversità tra le formazioni politiche del nord – decisamente poco propense a spostare il proprio asse a destra – e quelle dell’est Europa (con l’aggiunta dell’Italia) che vedono di buon occhio un’alleanza con le forze populiste.
Questa situazione si è acuita nel corso degli anni dalla presenza in seno alla famiglia popolare di Viktor Orbán, Primo Ministro ungherese animatore del sempre più ampio fronte euroscettico. Nel corso degli anni il leader di Fidesz si è fatto promotore di alcune radicali riforme che hanno ridotto gli spazi di libertà nel proprio paese (che hanno portato il Parlamento Europeo ad una dura presa di posizione lo scorso 12 settembre), coerenti con la dottrina della democrazia illiberale che propugna apertamente. Nonostante il suo partito abbia registrato al Parlamento Europeo un indice di fedeltà alle indicazioni di voto del PPE pari al 94% (superiore alla media popolare generale del 93,8%) spesso ha accusato l’Unione di minacciare l’identità e la sicurezza ungherese, caratterizzandosi per forti prese di posizioni contro i richiedenti asilo che possono ben definite essere xenofobe.
La costruzione di una grande barriera ed il rifiuto di ogni ipotesi di redistribuzione dei profughi giunti nel Vecchio Continente sono solo alcune decisioni più controverse assunte dal governo ungherese nel corso degli ultimi anni, ma che testimoniano la forte vicinanza di Orbán con la linea dura propugnata dall’estrema destra in tutta Europa.
Per anni il Partito Popolare e Fidesz hanno perseguito due strategie diametralmente opposte. Il primo ha provato a mantenere al proprio interno il problematico leader ungherese – anche su richiesta della cancelliera tedesca – per cercare di mitigarne le tendenze illiberali ed autoritarie, il secondo invece ha tentato di spostare sempre più a destra la linea della sua famiglia europea di appartenenza, favorendo uno spostamento verso posizioni più radicali che ha connotato molti dei partiti di centro destra (come dimostra la vicinanza di Forza Italia alla nuova Lega di Salvini o la campagna elettorale condotta dai Popolari in Spagna).
La campagna denigratoria realizzata dal governo ungherese nei confronti di Jean Claude Junker, che appartiene alla stessa famiglia politica europea, ha aperto una frattura chiara all’interno del PPE, portando ben sette partiti nazionali a chiederne ufficialmente l’espulsione. Nel contesto di una crescente tensione (soprattutto in vista del voto del 26 maggio che vedrà ridimensionata la presenza popolare e socialista nell’Europarlamento) il 20 marzo, si è tenuta l’assemblea per determinare il destino di Fidesz e del suo controverso leader, che richiesto dai 13 partiti affiliati che speravano di ottenerne l’espulsione. Con 190 voti favorevoli e 3 contrari il PPE ha deciso una soluzione di compromesso, sospendendo il partito ungherese – che non ha più diritto di voto né di partecipazione alle riunioni del gruppo – ma non giungendo fino in fondo, come avevano invece chiesto i popolari nord-europei e del Benelux. Durante la discussione Forza Italia, per cui era presente Antonio Tajani, non ha mai preso la parola ed ha mantenuto un atteggiamento ambiguo.
All’esito della votazione gli ungheresi hanno provato a ridimensionare quanto successo, preferendo parlare di autosospensione, come se non si fosse verificata la massiccia presa di posizione che ha riunito nuovamente tutti i partiti di centrodestra europei. L’artefice della mediazione che ha provato a ricomporre la frattura, evitando lo strappo. è stata la nuova leader della CDU, che guida la pattuglia più nutrita in seno al PPE, Annegret Kramp-Karrenbauer, succeduta alcuni mesi fa ad Angela Merkel. L’obiettivo dei tedeschi era duplice: da un lato non pregiudicare la candidatura del proprio membro, Manfred Weber, alla successione di Junker alla guida della Commissione Europea. Uno strappo interno al gruppo non solo avrebbe provocato un danno d’immagine ai popolari, ma avrebbe tolto voti utili a raggiungere il risultato in seno al Parlamento e al Consiglio Europeo.
Allo stesso tempo la condizione “sospesa” degli ungheresi avrebbe potuto costituire una efficace merce di scambio. Nel caso in cui le urne avessero confermato il quadro tratteggiato dai sondaggi, l’espulsione di Orbán avrebbe potuto rappresentare qualcosa da poter offrire all’ALDE che ha già messo in chiaro l’impossibilità di un’alleanza con il PPE, qualora questo continuasse ad ospitare al proprio interno un sostenitore della dottrina delle democrazie illiberali. Allo stesso tempo, se si dovesse assistere ad una improbabile affermazione netta dei nazionalista, Fidesz avrebbe potuto costituire un ponte per costruire una nuova alleanza. Non è infatti passata inosservata la grande stima che il leader leghista Matteo Salvini – nuovo campione dell’estrema destra europea – nutre nei confronti del primo ministro ungherese.
La decisione definitiva sul destino di Fidesz è stata formalmente rinviata al congresso di Novembre, benché i popolari i siano disponibili ad anticiparla, qualora fosse necessario ai fini della composizione della nuova Commissione Europea. Ufficialmente spetterà ad un triumvirato decidere il destino degli ungheresi. Come nei migliori arbitrati i componenti di questo comitato sono stati scelti con grande accuratezza, per rappresentare le anime del PPE. La compongono il belga Van Rompuy, ex presidente del Consiglio europeo critico nei confronti dell’imputato, il tedesco e già presidente del Parlamento europeo Hans-Gert Pöttering, ufficialmente terzo tra le parti, e l’austriaco Wolfgang Schussel, più accondiscendente verso Orbán. Di lui si era parlato in passato quando, da cancelliere austriaco, guidò un governo con l’SPÖ – allora ancora più a destra di quanto non sia oggi – subendo pesanti accuse di autoritarismo dall’Unione Europea e scontando pesanti sanzioni informali. All’esito della valutazione del triumvirato – secondo Joseph Daul – o si certificherà l’adesione di Fidesz ai valori democratici e dello stato di diritto ed il pieno rispetto delle richieste formulate da Manfred Weber con una lettera del 5 marzo, oppure la naturale conseguenza sarà l’espulsione degli ungheresi dalla famiglia popolare.
La speranza di molti è che la paura di diventare irrilevanti al di fuori del perimetro della principale forza politica europea e il timore della nascita di una maggioranza trasversale ed a lui ostile possa spingere Orbán a moderare le sue posizioni rinunciando ad alcune rivendicazioni tra quelle più controverse ed imbarazzanti per i popolari.
Tale strategia si è però rivelata nei fatti fallimentare. Nei primi giorni di maggio infatti Victor Orbán ha cambiato nuovamente rotta, aprendo un nuovo fronte di scontro, in risposta ad un’intervista rilasciata da Manfred Weber ad un’emittente tedesca in cui dichiarava di non essere interessato a conquistare la presidenza della Commissione Europea grazie al sostegno dell’estrema destra. Tale dichiarazione è divenuta il pretesto per il leader ungherese per potersi dire “offeso” di quello che ha interpretato come un attacco alla propria nazione , che ha conseguentemente comunicato di non essere più interessato a sostenere la candidatura dell’eurodeputato tedesco alla poltrona più alta dell’Unione, come ha avuto modo di annunciare in una conferenza stampa in cui aveva al proprio fianco Heinz-Christian Strache, fino a pochi giorni fa vice-cencelliere austriaco dimessosi a seguito di uno scandalo che lo vedeva coinvolto in rapporti torbidi con la Russia.
Tale posizione ha messo nuovamente in difficoltà il PPE, anche alla luce del forte legame che unisce i paesi dell’est europa. Janez Janša ex primo ministro sloveno e leader partito democratico che appartiene alla stessa famiglia, ha dichiarato di sospettare che dopo la decisione assunta il 20 marzo di sospendere Fidesz Jean Claude Junker abbia influito pesantemente ad accelerare lo scontro con Orbán dopo la campagna denigratoria intrapresa dal governo ungherese, al fine tanto di colpire questi quanto di indebolire la candidatura di Weber per poter aspirare alla riconferma. Non ha mancato di attaccare Angela Merkel, accusata di aver tradito con le sue politiche di accoglienza i valori popolari che l’Ungheria incarnerebbe invece in modo autentico.
Rispetto delle condizioni poste da Weber il 5 marzo scorso. Fino ad oggi Orbán ha fatto pervenire solo delle tiepide scuse di forma e mai di sostanza.
La prospettiva per il PPE si fa sempre più complessa, con il rischio di mandare in frantumi – o quantomeno di spaccare – il principale gruppo politico europeo con pesanti ricadute per la propria corsa per la guida alla Commissione Europea.
Da un lato la rottura con Fidesz e con i paesi dell’Est, pur rappresentando la certificazione del fallimento dell’allargamento dell’unione nei primi anni 2000, potrebbe costituire un argine efficace allo scivolamento a destra dei partiti moderati in Europa.
La vicenda di Frontex e le modalità di gestione dei flussi migratori, motivati dal timore della perdita di consenso elettorale più che da effettive ragioni di sicurezza, sono la prova di come progressivamente le posizioni del centro destra abbiano progressivamente cominciato a radicalizzarsi. Orbán si troverebbe libero da ogni vincolo o scrupolo, se mai ve ne sono stati, e potrebbe tanto porsi alla guida dell’estrema destra europea quanto finire per essere irrilevante e dimostrare che ci sono poche opportunità di successo per chi cerca uno spazio fuori dalle grandi famiglie politiche europee.
Dall’altro un ricongiungimento con gli ungheresi potrebbe tradursi in una “resa” del PPE che finirebbe per dimostrare di non riuscire ad andare fino in fondo nemmeno di fronte a chi non nasconde la propria lontananza dai principi di libertà che dovrebbero connotare i paesi dell’Unione Europea. La forza contrattuale di un Orbán nuovamente a pieno titolo membro dei popolari potrebbe accelerare un avvicinamento in diversi paesi del fronte moderato con quello di estrema destra, sulla scorta di quanto già oggi succede in Italia ed Austria.
Quale che sia l’esito delle elezioni del prossimo 26 maggio, la partita per i popolari pare particolarmente complessa e le probabilità che sia proprio Manfred Weber a guidare la Commissione Europea per il prossimo quinquennio diminuiscono ogni giorno di più. Il tempo misurerà la loro capacità di mantenersi fedeli ai valori e agli ideali che li hanno caratterizzati nella costruzione europea.
Fabrizio Bosio
Foto di copertina gentilmente concessa da EPP via Flickr