EUROPEA: Jean Claude Junker, anatomia di una candidatura
L’arrivo di Jean Claude Junker al vertice dell’Unione Europea non è stato semplice. Nonostante la lunga esperienza e la fama di politico più longevo del continente, nonostante la netta affermazione dei popolari al Parlamento Europeo, la strada per lui è stata in salita.
Le elezioni europee del 2014 avevano con sé un primo timido elemento di novità: le principali forze politiche (PPE, PSE e ALDE) avevano deciso di rispettare in maniera netta l’esito del voto. Il partito di maggioranza relativa avrebbe conquistato anche il diritto di esprimere la presidenza della Commissione. Non solo: tutti si sono impegnati a presentare prima il proprio candidato, così che potesse prendere vita una prima embrionale campagna elettorale di dimensione continentale.
Lo stesso Parlamento Europeo aveva promosso la campagna This time is different per sensibilizzare i cittadini europei chiamandoli alle urne, convinto di poter catturare l’interesse degli elettori a diventare parte di un cambiamento necessario dopo i dieci stanchi anni della Commissione guidata dal portoghese José Manuel Barroso. Non tutti i partiti erano stati in grado di costruire un’intesa internazionale (tra questi, ad esempio, il M5S) ed altri avevano deciso di non farlo per non legittimare l’Unione Europea tanto avversata, come la (allora) Lega Nord e Front National.
I candidati in campo erano sei, di cui soltanto due veramente in lizza per poterla spuntare: Martin Schulz, per il (PSE), Jean Claude Junker per il (PPE), Guy Verhofstadt (ALDE), Alexis Tsipras (GUE/NGL) e la doppia candidatura dei Verdi: José Bové e Ska Keller (a causa del pareggio raggiunto nelle votazioni del movimento per la scelta del proprio capolista).
L’apertura delle urne aveva delineato un Emiciclo composto da 221 popolari (quasi il 30%), 191 socialisti, 70 conservatori e riformisti, 67 liberali, 50 verdi, 52 membri della sinistra europea. 48 deputati sarebbero confluiti più avanti nel gruppo EFDD, che raccoglie il M5S a livello contentale e 52 sarebbero invece rimasti non iscritti ad alcun gruppo.
Le trattative dai capi di stato – al netto delle intenzioni comunicate nei mesi precedenti – hanno cominciato a complicarsi e la conseguenza apparentemente ovvia di quel voto (cioè l’insediamento di Junker quale rappresentate del partito che aveva raccolto maggiori consensi nel continente) ha cominciato ad essere sempre meno certa.
In particolare di fronte ad un’Angela Merkel troppo tipida l’Ungheria ed il Regno Unito hanno provato a compromettere il meccanismo di questa elezione (in)diretta del Presidente della Commissione, portando ad uno stallo. Già in quelle fasi il Primo Ministro britannico, il conservatore Cameron, continuando il proprio slittamento verso posizioni sempre più euroscettiche in seguito alle pressioni dei successi elettorali dell’UKIP, aveva annunciato l’intenzione di portare fuori dall’Europa il proprio paese, in caso di conferma della nomina di Junker. Anche la Svezia si era unita al coro degli scettici, temendo che se fosse andata a buon fine questa designazione “popolare” del Presidente il ruolo del Consiglio ne sarebbe uscito ridimensionato, a danno dei singoli paesi. Anche parte della stampa, ed in particolare quella inglese come il Financial Times, condivideva la posizione di Gran Bretagna, Ungheria, Olanda e Svezia sull’importanza di bloccare il processo di “appropriazione” del potere di nomina del Presidente da parte del Parlamento Europeo e – indirettamente – del corpo elettorale dell’intero continente.
Jean Claude Junker aveva quindi il delicato compito di raccogliere un consenso non scontato (anche da parte di paesi parte del suo stesso partito) e comporre una maggioranza capace di ottenere un voto favorevole del Parlamento Europeo e degli Stati membri. Questo con la consapevolezza che in parallelo stava prendendo quota la candidatura alternativa di Pascal Lamy, particolarmente forte della sua lunga collaborazione con Jacque Delors, una delle figure chiave dello sviluppo dell’Unione Europea.
Il tentativo di costruire questa delicata alchimia era sfociato nella presentazione di cinque punti programmatici, che avrebbero dovuto rappresentare le fondamenta dell’azione politica della nuova Commissione. Junker – è ancora online il sito che presenta il suo programma puntava su politiche di crescita ed occupazione, da raggiungere attraverso la nascita del mercato unico digitale europeo abbattendo le barriere del diritto d’autore, delle regolamentazioni relative alle telecomunicazioni e alla gestione della privacy e dei dati sensibili.
La seconda proposta guardava all’Est Europa e all’Ucraina dove i fatti erano in procinto di precipitare. Junker annunciava la nascita di un’unione energetica. Capace di costituire una massa critica rilevante per ottenere una riduzione dei prezzi per i cittadini e con una visione di prospettiva che la rendesse sempre meno dipendente dalla Russia. In particolare l’aspirante presidente auspicava di riuscire a rendere l’Europa un continente leader nelle energie rinnovabili, viste come strumento di indipendenza e un vettore di sviluppo per le industrie continentali.
La terza promessa del lussemburghese era la chiusura di un accordo commerciale con gli Stati Uniti che fosse vantaggioso per il mercato unico europeo, ma che non tralasciasse gli alti standard qualitativi e di sicurezza dell’Unione. Era ancora fuori da ogni ipotesi che potesse essere Donald Trump la guida degli USA.
Il quarto fronte di impegno annunciato da Junker era una revisione dell’unione monetaria che tenesse in considerazione la dimensione sociale e rendesse strutturali gli interventi straordinari che la crisi Greca aveva reso necessario adottare. In particolare veniva posto l’accento sulla necessità di un governo politico dell’Eurozona che prescindesse dal ruolo eccezionalmente interpretato da Mario Draghi e dalla BCE nella gestione delle difficoltà delle economie nazionali più fragili. Veniva suggerita anche la rappresentanza unica dell’Euro nel Fondo Monetario Internazionale.
La quinta questione che il popolare avrebbe voluto affrontare – anche per placare l’ostilità del Regno Uniti verso la sua candidatura – era il rapporto tra l’Isola ed il Continente. Junker proponeva di intavolare trattative con gli inglesi volte a trovare un equilibrio che tenesse conto delle loro specificità e favorisse la comprensione del bisogno comune di più Europa. Veniva anche stabilita una “linea rossa” nella difesa delle quattro libertà, architrave imprescindibile dell’Unione.
Accanto a questi cinque punti Junker, che aveva caratterizzato questa sua campagna con le parole d’ordine Experience, Solidarity, Future, aveva proposto alcune soluzioni sull’immigrazione e sui lavori digitali.
Nonostante le numerose ostilità, al comune volontà di consolidare l’idea di un Presidente della Commissione legittimato – seppur indirettamente dal voto popolare – ha prevalso. Lo stesso Tsipras, candidato antagonista di Junker e molto distante dalle posizioni dei Popolari europei, aveva auspicato il suo incarico proprio a conferma di quelle che erano state le premesse condivise della campagna elettorale del 2014. Il Consiglio Europeo, fedele quindi alla visione rinnovata del processo dei designazione del Presidente, ha nominato a capo della Commissione Junker con 26 voti su 28 (contrari anche in ultima istanza Regno Unito ed Ungheria) il 28 giugno. Il successivo 15 luglio ha ottenuto anche la fiducia del Parlamento Europeo con 422 voti favorevoli, 250 contrari e 47 astenuti.
Il suo discorso di insediamento, intitolato: “Un nuovo inizio per l’Europa. Il mio programma per l’occupazione, la crescita, l’equità e il cambiamento democratico“, cambiava radicalmente i toni rispetto a quello di Barroso, cinque anni prima. Il tema centrale della Crisi, che stava allora per travolgere gli Stati meno strutturati, ha lasciato spazio a parole d’ordine legate al futuro: crescita, investimenti, nuove opportunità di lavoro. L’Europa delinata da Junker avrebbe dovuto lavorare per i cittadini, producendo risultati efficaci, lavorando con impegno ad un programma di riforme.
Tra i primi interventi che il discorso annunciava c’era un ambizioso piano di investimento per 300 miliardi di euro su un triennio. Ha parlato di semplificazione per le Piccole Medie imprese, della necessità di non far gravare le riforme strutturali sulle spalle di lavoratori e pensionati. Venivano riprese le principali tematiche già affrontate nei cinque punti strategici che aveva annunciato nella fase della sua travagliata candidatura alla Presidenza della Commissione.
Il mandato di Junker si è aperto con tante promesse e l’impegno a mantenere un delicato equilibrio tra le priorità del PPE, legate a bilanci rigorosi e crescita per le aziende, con quelle più vicine alla sensibilità del PSE sui diritti dei lavori e delle fasce deboli della popolazione.
Cosa di quanto promesso è stato realizzato? In quale percentuale la visione ambiziosa di un’Unione Europea capace di gestire i flussi migratori, di conquistare spazi di indipendenza sul fronte energetico e di promuovere crescita e lavoro si è trasformata in realtà?
Fabrizio Bosio per DIP.news