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TRA TERRA E CIELO: storia di un ragazzo e del suo viaggio dal Senegal a Modena

M. ha 22 anni e viene dal Senegal. 22 anni come me, ma una storia lontana anni luce dalla mia, ordinaria vita di giovane modenese cresciuta nell’ovatta. Nello stesso lasso di tempo da me trascorso immersa nello studio e alle prese con le piccolezze della routine, avendo come massime preoccupazioni un esame ostico, un’amicizia finita o un lavoretto da trovare, questo ragazzo percorreva oltre 4 mila chilometri di strada, in costante pericolo di vita, per arrivare infine incolume, e consapevole della fortuna di essere vivo, in questa cittadina-fortezza del buon vivere che ha ormai eletto a sua prima casa.

 

M. si trova bene a Modena, ha tanti amici, molti italiani. Ha studiato, ha preso la licenza media e forse continuerà, perché «bisogna sempre migliorare», dice. Ha conseguito anche un diploma da cuoco, è quello che vuole fare. Ha lavorato e continua a lavorare, fa un po’ di tutto. Sa cucinare le specialità modenesi, pasta, crescentine, persino i borlenghi, che prepara nelle sere d’estate al Parco Ferrari. M. suona anche, fa scorrere la sua energia attraverso le mani, scaricandola con forza sulla pelle di capra che ricopre il Djembe. Impossibile non mettersi a ballare, o almeno muovere a ritmo i piedi e le mani, quando lo si sente suonare. Ha creato un gruppo di sole percussioni con un paio di amici, gli Alakasuluku. Ogni tanto suonano nelle strade del centro storico di Modena e hanno sempre un grande successo. Tutti i lunedì sera partecipa ai raduni del gruppo modenese di Arte Migrante, fondato sulla condivisione di storie, doti personali, idee e tutto ciò che si ha voglia di consegnare di sé agli altri. M. porta il suo Djembè e a fine serata fa scatenare tutti con i suoi ritmi irresistibili. Nel giro di presentazioni, quando ognuno dice il proprio paese di provenienza, lui si dichiara nato ‘tra la terra e il cielo’.

È contento a Modena, dove vive da più di tre anni. Ma a tratti affiora da lontano qualcosa che preme, esige ascolto. Le parole arrivano un po’ alla volta, timide, quasi trattenute. La prima cosa che si impone con forza, come un grido di ingiustizia subita, è il senso di non appartenenza.

«Mi chiamano straniero o clandestino – dice – anche se non sono clandestino, ho i documenti in regola. Non sono italiano, ma nemmeno senegalese, non più. Sono nato lì, ma nel momento in cui lasci il paese non ti considerano più uno di loro. Perdi tutti i diritti che avevi lì. Ho smesso di essere parte dei cittadini senegalesi, ma non sono neanche parte dei cittadini italiani. Sono in mezzo».

Poi, pian piano, arriva anche la storia del viaggio, incredibile eppure così urgentemente reale. Una fuga rocambolesca da un paese dove, ci tiene a precisarlo, non c’è una dittatura o una guerra, ma c’è la fatica, la fame, il pericolo costante di vita. Pericolo come quello in cui si è ritrovato lui, dopo un’assurda denuncia ricevuta dal padre di una ragazza che frequentava, in quegli anni dell’adolescenza trascorsi a casa di uno zio, nella cittadina di Diaoube. Tuttavia, il padre della ragazza non accettava la loro relazione e aveva combinato per la figlia un matrimonio forzato. M. aveva lasciato perdere, sapeva di non avere speranze. Non sapeva, invece, che la ragazza era scappata poche settimane dopo il matrimonio. Fuga di cui era stato accusato lui, che pure era all’oscuro di tutto. E in Senegal una denuncia del genere, da parte di un uomo così ricco e potente, voleva dire prigione immediata, senza possibilità di difendersi.

In prigione M. ci è finito, dopo che la polizia lo è venuto a prendere a casa dello zio, ammanettandolo e sbattendolo in cella. Ci è finito con l’innocenza e l’incredulità dei suoi 18 anni, che si è però subito trasformata in consapevolezza di dover prendere in mano la propria vita per non rimanerne succube, e quei 18 anni sono diventati tutt’a un tratto molti di più. È riuscito a scappare, grazie al gesto provvidenziale di un amico che lavorava nel carcere, che una notte l’ha liberato e l’ha nascosto a casa propria. Da lì, gli interrogativi sul da farsi e, infine, la decisione estrema: a casa sua non poteva tornare, né dalla madre né dal padre, che ormai avevano vite separate, con nuovi compagni. Nel paese non poteva restare, gli diceva l’uomo: «Se ti beccano di nuovo è la fine». Non rimane altro che fuggire, lasciare tutto e tutti, la famiglia, la scuola, il calcio, il paese, il Senegal, senza soldi e senza documenti. Non c’era alternativa. E così, dopo qualche giorno di latitanza, nel pieno della notte l’uomo lo ha accompagnato alla frontiera con il Mali, gli ha comprato un biglietto del pullman per arrivare a Bamako, la capitale, ed è riuscito a fargli superare il confine, lasciandogli qualche soldo, da nascondere bene.

Perché, M. lo sottolinea più volte, là, per strada, sfruttano chiunque. «Se non hai i documenti, ad ogni paese ti fermano e ti chiedono i soldi. Anche se hai i documenti, devi pagare». Ad ogni paese una frontiera, ad ogni città una barriera. «Io nascondevo i soldi nelle scarpe, sotto le calze. Li ho salvati così».

Arrivato a Bamako, M. ha dormito per due settimane su una panchina della stazione delle corriere, all’aperto, usando il corrispettivo di due euro al giorno per pranzo e cena. Poi ha incontrato un signore che, vedendolo distrutto, lo ha preso a lavorare nel suo ristorante, in cambio di vitto e alloggio, per tre mesi. Ma in quel luogo non aveva possibilità, e così si è rimesso in cammino. Ha pensato di andare in Africa centrale, ha attraversato il Burkina, il Togo ed è arrivato in Benin.

 

Il tragitto percorso da M., visto su una cartina, sembra tornare indietro, retrocedere rispetto alla rotta verso l’Italia. M. spiega il motivo: «All’inizio non pensavo di lasciare l’Africa. Non sapevo nulla dei viaggi verso l’Europa, non se ne parla nel mio paese». Dal Benin avrebbe voluto arrivare in Camerun, ma non ha potuto attraversare la Nigeria, perché la frontiera era chiusa per un’epidemia di ebola.

Nel frattempo, da solo, lottando per non farsi sottrarre quei pochi soldi rimasti che pian piano calavano, vedeva tanta gente che dal Benin partiva per la Libia, sentiva dire che là c’era lavoro, e allora è partito anche lui. Per quella rotta si attraversa il Niger, dove lui ha sostato tre mesi. Era finito in balia di un trafficante che l’ha costretto a lavorare in una sorta di campo di sosta forzata, dove la gente viene trattenuta e fatta lavorare finché non ripaga i debiti contratti dopo essere stata venduta ai trafficanti. Il compito di M. era quello di controllare che la gente non scappasse. Un lavoro molto rischioso: maltrattamenti, violenze, per un nonnulla potevano portarti nel deserto e lasciarti morire lì. M. aveva paura che, facendo quel lavoro di carceriere, cercando di impedire a uomini più grandi e muscolosi di lui di scappare, si sarebbe preso delle botte, o una coltellata. Dopo tre mesi non aveva più la forza di resistere. Il capo gli ha proposto di portarlo in Libia, ma M. non pensava che tra Niger e Libia ci fosse il deserto. A scuola, in geografia, aveva studiato quanto il deserto fosse pericoloso. Aveva imparato come si muore nel deserto, e alcuni trucchi per sopravvivere. Questo si impara nelle lezioni di geografia, in Senegal.

Quando lo hanno caricato su un pick-up, con altre 30 persone stipate nel cassone sul retro, e si sono inoltrati nel deserto, M. ha pensato che non ce l’avrebbe fatta, che non sarebbe sopravvissuto. Solo montagne di sabbia, nessun albero, il rischio di attacchi dei ribelli, trenta persone stipate che rischiano di cadere da un momento all’altro – e in quel caso il pick-up non si sarebbe fermato – e la paura costante che la macchina avesse un guasto, perché non ci sarebbe stato modo di aggiustarla, lì in mezzo al nulla. E a quel punto si resta lì, fermi, finché l’acqua non finisce o la sabbia non ricopre i corpi disidratati. Due settimane è durato questo viaggio infernale, due settimane di terrore costante, di morte sfiorata per un soffio. M. ce l’ha fatta, è arrivato in Libia, a El-Gatrun. L’hanno lasciato per la strada, stremato e senza niente, perché anche nel deserto si viene derubati. «Gli autisti sono dei criminali – spiega – hanno le armi e ti costringono a pagare. Tutti i soldi che hai, sei costretto a darli. Per questo si arriva in Libia senza nulla».
Poi, un ragazzo del Niger incontrato per caso lo ha aiutato, trovandogli un tetto sotto cui rifugiarsi. Lo ha portato in un dormitorio, anche se era un posto pericoloso poichè spesso venivano uomini armati a rubare, e si era obbligati a dare tutto.

Il nuovo amico lo ha portato con sé a lavorare in un cantiere edile. 15 dinari al giorno di paga, di cui 5 andavano nell’affitto, altri 5 per mangiare, gli altri per oggetti utili, come il sapone. Il poco che rimaneva si metteva via. M. racconta che aveva imparato dai nonni, fin da bambino, il trucco per non perdere i soldi: nascondere una cosa là, una da un’altra parte, mai tutto insieme. E così ha fatto con i soldi, avendo in più un’intuizione che si sarebbe rivelata provvidenziale. I ladri non si sono fatti aspettare, sono arrivati con le armi, minacciando e pretendendo di avere tutto ciò che si trovava nella stanza. Ma non hanno considerato quello che c’era fuori. M., invece, aveva diviso i suoi risparmi in tre luoghi. Teneva solo pochi spiccioli con sé nella stanza, che infatti gli sono stati rubati. Il resto, ciò che era per lui di vitale importanza, era nascosto nelle scarpe da lavoro rimaste fuori dalla porta, un posto che i criminali non avevano minimamente considerato. E così è riuscito a salvarsi anche quella volta. Ma non sopportava più di rimanere lì.

Si è rivolto a un autista che trasportava persone da El-Gatrun a Tripoli. Anche se M. non aveva soldi per pagare, l’autista ha accettato di portarlo, perché la vera fonte di denaro era M. stesso che, dal momento in cui è salito sul pick-up diretto a Tripoli, si è trasformato in una merce. Uno strumento per fare soldi, sfruttando il suo disperato bisogno di raggiungere un luogo migliore. Perché non ci sono alternative, per arrivare a Tripoli. Una volta arrivati in città, l’autista ha consegnato l’intero carico umano del suo pick-up a un centro di detenzione, una prigione, come la chiama M. Un lager, sarebbe meglio definirlo, gestito da uomini che hanno pagato l’autista per ciascun passeggero.

«Hanno fatto del business su di me – dice – Mi hanno comprato come se fossi un oggetto». Poi i carcerieri hanno chiesto a M. 1400 dinari, perché doveva ripagare il debito, altrimenti non sarebbe uscito di prigione. Per pagare lo mandavano a lavorare ogni giorno, nei campi o per conto di persone esterne che si rivolgevano lì. «Ma di soldi noi non ne vedevamo – dice M. – li davano direttamente ai carcerieri».

Ogni sera si ritornava in quell’inferno, un vero campo di lavoro forzato, dove è impossibile non incappare se ci si mette in viaggio. Un giorno, dopo un mese e mezzo di reclusione, M. è stato assoldato da un medico per qualche lavoretto nel suo ospedale, una persona che aveva viaggiato tanto, un uomo intelligente. Hanno parlato molto e alla fine della giornata l’uomo non ha voluto riportare M. nel lager. Se vuoi, gli ha detto, ti tengo a lavorare con me. Lo ha salvato, ma era pericoloso restare a Tripoli. «Se quelli della prigione mi avessero rivisto in giro mi avrebbero ammazzato», spiega M. Ha vissuto così un mese, con la paura di incontrarli. Poi il medico gli ha raccontato di un amico che imbarca la gente, per mare. M. non sapeva nulla di quello che succede in mare. A scuola, in geografia, avevano studiato solo fino alla Sicilia, che chiamavano “l’île”. Non sapeva quasi dell’esistenza dell’Italia. Ma il medico lo ha convinto, dicendogli che era la soluzione migliore. L’amico, un trafficante, dopo aver chiesto a M. 1200 dinari, lo ha portato al mare. In Senegal c’è il mare, ma M. non l’aveva mai visto e ne aveva una paura bestiale. È stato due giorni in attesa di essere imbarcato. È dimagrito perché non riusciva a mangiare niente, stava malissimo al pensiero della traversata, del mare così forte, pericoloso per lui che non sapeva nuotare. Pensava che la sua vita sarebbe finita lì, in mare. Ma sapeva che, se fosse scappato, gli avrebbero sparato, perché in Libia ognuno può fare quello che vuole, è il Far West.

«Tutti quei poliziotti in realtà non sono veri poliziotti, vogliono solo arricchirsi sulla pelle delle persone. Se ti beccano mentre scappi è la fine». Così M. è rimasto. «Preferisco morire nel mare – ha pensato – che finire ammazzato dalle guardie».

A mezzanotte di un giovedì di aprile l’hanno imbarcato con altre 160 persone. Lui era stato messo al centro, in mezzo alla gente, perché era atterrito dalla paura. Era seduto accovacciato e non riusciva neanche ad alzarsi. «Ci hanno accompagnati per 400 metri dalla riva – dice – e poi hanno abbandonato la barca. Hanno detto: “O andate in Italia, o morite tutti”». Quando hanno raggiunto il mare aperto, le onde erano altissime e non riuscivano a procedere. Il viaggio è durato dal 9 al 12 aprile. M. ricorda benissimo le date, quei giorni che pensava sarebbero stati gli ultimi della sua vita. Invece ci è arrivato vivo, in Sicilia. La barca si è fermata, lui sentiva alcuni ragazzi che gridavano: «Nave! Nave!». Tutti si alzavano dritti, in piedi, ma poi la nave si è allontanata. Solo dopo un’ora ne è arrivata un’altra, che si è accostata e li ha salvati, tutti e 160. Nessuno è morto. È arrivato così, a 19 anni, a Messina, in quell’ île di cui sapeva a malapena l’esistenza. Dalla Sicilia a Bologna, e infine a Modena, la città da cui non è più voluto partire. «Penso di aver trovato il posto giusto per me», dice.

 

Il racconto si interrompe. Mi guarda, sorride, abbassa il capo. Avrebbe potuto dire molto di più, ma non ce n’era bisogno. Sospeso nell’aria, appeso ai suoi occhi neri, percepisco il non-detto, che pure traspira dalle sue parole e non necessita di ulteriori spiegazioni. Quel non-detto che è l’immane macigno che lui, come tanti, ha portato sulle spalle giovani e inesperte, dal Senegal fino a qui, e che continua a portare anche ora che la sua vita sembra essersi stabilizzata, si appesantisce ad ogni sguardo torvo che riceve per strada, ad ogni parola gettata lì malignamente. Il non-detto che rappresenta il vero nocciolo della sua storia, quel baratro da cui ognuno di noi tenterebbe di scappare, implicito e tuttavia mai ribadito abbastanza; il macigno che sarebbe capace da solo, per lo meno, di sfatare ogni pregiudizio verso questi giovani viaggiatori di cui tanto si parla col veleno sulla lingua; si cancellerebbe, il veleno, dalla lingua di chi accetta di toccare quel macigno con mano, di prenderselo sulle spalle anche solo per un breve tratto, empaticamente, condividendo lo sforzo e alleggerendo, così, l’immane peso che grava su questo giovane Sisifo, e sui tanti come lui.

 

Rosaluna Capucci per DIP.news   

Foto di Mauro Terzi